Capitolo della XXV Domenica T.O. [1]
Ci fermiamo sulla liturgia di questa XXV domenica, liturgia complessa, non facile, persino all’apparenza contraddittoria, che offre molti spunti di riflessione e di cui l’orazione colletta sintetizza i temi portanti, facendoci pregare così: «O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore, abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla cupidigia delle ricchezze, e fa’ che alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita». Su questa orazione ritorneremo alla fine.
Liturgia contraddittoria, dicevo, perché segnata da un contrasto che non si può non notare. Nella prima lettura troviamo un oracolo di Amos nello stile tipico del profeta, un atto d’accusa senza mezzi termini contro coloro che cercano di «comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali» e nel Vangelo di Lc, invece, l’elogio di un amministratore disonesto, che non esita a comportarsi in maniera scorretta con beni che non sono suoi.
Com’è possibile che le due cose possano andare insieme? E, infatti, insieme non vanno, perché non è questo il senso di questa liturgia e di questa pagina di Lc. Ovviamente il Vangelo non è, e non può essere, un invito alla “disonestà”, ma ad imitare, in altro modo, la scaltrezza, l’insieme di intelligenza e astuzia di quell’amministratore, per cercare e investire su un altro tipo di ricchezza, la vera ricchezza. Ma fermiamoci, allora, su questa pagina di Lc, che ha qualcosa di sorprendente.
Dopo le tre parabole della misericordia che abbiamo meditato domenica scorsa, nel cap. 15 di Lc, ne troviamo altre due, al cap. 16, che sotto certi aspetti si ricollegano al tema della misericordia, ma sviluppano soprattutto quello della ricchezza: la parabola dell’amministratore scaltro o disonesto nel vangelo di oggi, e quella del ricco epulone e del povero Lazzaro, nel vangelo di domenica prossima.
Il brano del Vangelo di oggi arriva fino al v. 13 e comprende oltre alla parabola (vv. 1-8a), un breve commento alla parabola stessa (v. 8b) e alcune massime di tipo sapienziale, che spostano l’attenzione sul problema dell’uso della ricchezza, un tema caro all’evangelista Lc, già trattato al cap. 12,33-34, qualche domenica fa, con l’invito: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore».
La pagina di oggi ritorna, allora, sul tema della ricchezza, per svilupparlo in un’altra direzione. Forse il tema di oggi potrebbe essere: investire bene! O il vero investimento. Una guida a rendere fruttuoso il nostro vero patrimonio.
Entriamo in questa pagina. Innanzitutto all’inizio, e vale la pena di notarlo, il discorso che Gesù si accinge a pronunciare non è più rivolto agli scribi e ai farisei, che cercano pretesti contro di lui, come nelle parabole precedenti, ma ai suoi discepoli, a coloro che lo seguono nel cammino verso Gerusalemme. Non ai lontani, ma ai vicini. Proprio a noi.
Il racconto parabolico si snoda fra il detto e il non detto, fino alla conclusione finale, che lascia decisamente stupiti. La vicenda narrata potrebbe ispirarsi a un fatto realmente accaduto, raccontato con grande abilità narrativa e finezza psicologica dalla penna di Lc. Un padrone fa chiamare il suo amministratore, l’economo – oikonomos, dice il testo greco –, accusato di aver dilapidato le sue sostanze (e in questo caso il verbo greco, diaskorpizo, è lo stesso usato nella parabola del figliol prodigo di domenica scorsa, per dire come quel figlio dissipa il suo patrimonio), per chiedergli conto della sua amministrazione. Non si sa se questa accusa sia vera o falsa, e non lo sapremo nel corso della narrazione, ma certamente l’episodio raccontato ha del verosimile. Il padrone, anzi “l’uomo ricco”, come dice il vangelo, è un proprietario terriero, come ce n’erano molti in Palestina del tempo di Gesù, che non amministra direttamente il proprio patrimonio, ma ne affida la gestione ad un altro, ad un “fattore” si sarebbe detto nella nostra Toscana degli inizi secolo scorso, il quale approfitta della fiducia che gli è data, finendo per comportarsi scorrettamente nell’amministrazione dei beni del padrone. Si potrebbe attualizzare anche nella storia di un amministratore delegato di un’azienda che ha alle spalle una vicenda di corruzione, e che di fronte all’imminente seduta del consiglio di amministrazione, cerca il modo di salvarsi, falsificando il bilancio con la copertura dei debitori. Nulla di nuovo sotto il sole.
La reazione dell’amministratore alla richiesta di spiegazione da parte del padrone avviene in due momenti distinti. Prima comincia a pensare a fra sé, in una sorta di soliloquio interiore, e l’evangelista porta alla luce la trama dei suoi pensieri. È un momento fondamentale e decisivo, di crisi e di svolta. Ripensa alla sua vita, a che cosa ne sarà di lui, valuta le possibilità che gli si presentano: «Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno». Si noti che le due opzioni «zappare» e «mendicare» rappresentano le occupazioni di chi non ha futuro. Scarta la prima, probabilmente perché richiede un notevole sforzo fisico, e la seconda perché fonte di umiliazione e dunque di vergogna: «Meglio morire che mendicare», dice Sir 40, 28. Finalmente, come un’illuminazione, gli si profila la soluzione giusta: «So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». Quello che risalta in queste parole è lo scopo, la finalità: essere accolto nella casa di qualcuno. Si potrebbe dire: qual è il desiderio più profondo del cuore dell’uomo se non quello di abitare una casa? La casa è il luogo della stabilità, degli affetti, grazie al quale viviamo il nostro rapporto con il mondo.
A questo punto mette in atto il piano escogitato, riduce il debito dovuto dai creditori al padrone: «“Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”».
Il comportamento dell’amministratore può essere spiegato in modi diversi, in base ai quali si può valutare diversamente anche la sua onestà o disonestà. Alcuni commentatori ritengono che l’amministratore non abbia imbrogliato il padrone, ma semplicemente abbia rinunciato alla sua percentuale di profitto su quanto era dovuto al padrone, cioè alla sua commissione, che era in qualche modo il suo stipendio. Questa percentuale poteva essere anche molto alta e rasentare talora l’usura, espressamente proibita dalla legge mosaica. Nel nostro caso l’amministratore avrebbe rinunciato alla sua percentuale scontandola al debitore. Così facendo, non solo non avrebbe danneggiato il suo padrone, ma avrebbe in qualche modo posto fine ad un’ingiustizia da lui stesso perpetrata, comportandosi, in verità, onestamente. Altri ritengono, invece, che l’amministratore abbia continuato il suo comportamento scorretto, dato che ormai non aveva più nulla da perdere. In questo caso il termine «ingiustizia» che si trova al v. 8a non sarebbe riferito soltanto all’agire precedente, ma anche a quest’ultima azione. … (segue)
___________
[1] Sr. Patrizia Girolani, Capitolo del 18/09/2022 alla Comunità di Valserena.
Views: 43