Un primo pensiero è sul parlare in parabole di Gesù.
Da piccoli ci hanno raccontato fiabe per farci addormentare (e non tutte ci hanno addormentato, qualcuna ci ha inquietato o impaurito: penso a Handersen o ai fratelli Grimm). La parabola non è una fiaba e non deve addormentarci, anzi deve svegliarci, attrarci, coinvolgerci. Leggendola devo provare ad immedesimarmi in tutti i personaggi e in tutte le situazioni: sono il buon samaritano, sono il sacerdote, sono il levita, sono il figliuol prodigo, sono il fratello maggiore, sono anche il padre misericordioso [“Quando era ancora lontano”: quanti hanno sperimentato il continuare a guardare una strada dalla finestra, a fissare un telefono che non squilla più, perché quella persona non c’è più, una morte, un amore finito…]. La parabola è aperta perché sembra che una parte debba essere scritta da noi: il figlio maggiore è entrato alla festa? Il figlio minore è tornato solo per fame? Il padre misericordioso mi aspetterà sempre tutte le altre volte che me ne andrò o avevo solo una possibilità, un bonus da giocarmi?]. Gesù parlava in parabole a quelli che dovevano trovare le strade per i misteri del regno. Il libro dell’Esodo ci ha detto che Dio parla al popolo da una densa nube.
Un secondo pensiero è sulla messa che celebriamo con il formulario che chiede la serenità del cielo, un clima buono e questo ci rimanda al grande tema della custodia del creato.
C’è un padre della Chiesa, Severiano di Gabala (poco noto anche perché è stato prima amico poi acerrimo nemico di s. Giovanni Crisostomo) che commentando il versetto «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15) a proposito del verbo custodire si chiede da che cosa, visto che si era nell’Eden fuori da ogni pericolo possibile. La risposta è nella dinamica della libertà che porterà l’uomo e la donna al peccato: custodire il giardino da lui stesso. “Le grandinate che distruggevano i raccolti, i tuoni e i fulmini ci sono sempre stati” dice ‘la gente’: è vero, ma è anche vero che – ce lo dicono i meteorologi che sono dei fisici e dei matematici non degli indovini – la frequenza di questi fenomeni è esponenzialmente aumentata e ora sappiamo che una parte di responsabilità dell’uomo c’è e anche in questo ci è chiesta conversione.
Valserena è un monastero impegnato nella sostenibilità non perché vada di moda, ma perché ha dei maestri che rendono tutto questo molto naturale e quasi scontato (Laudato sì cita al n. 126 la «lunga tradizione monastica»: c’è un Benedetto da Norcia che quando ti dice che gli utensili del monastero vanno trattati come i vasi sacri dell’altare, ha ben presente che cosa voglia dire “cura della casa comune”; e c’è un Bernardo di Chiaravalle che i libri li conosceva e li scriveva, ma ci ricorda: «Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà». Facciamo allora in modo di conoscere questi maestri nei loro libri, per avere ancora boschi.
don Lorenzo Mancini
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