Es 19,2-6, Sal 99, Rm 5,6-11, Mt 9,36–10,8
Care sorelle, cari fratelli,
abbiamo ascoltato nella prima lettura come il Signore mirabilmente parla al popolo d’Israele dal Sinai. Dice qualcosa di inaudito e la sua parola opera e trasforma: “Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”.
Nel Vangelo invece Gesù invia in missione i Dodici e apre il grande discorso missionario del c. 10, che continueremo ad ascoltare nelle prossime due domeniche.
A ben guardare però le due pericopi sono incomplete (cosa quasi inevitabile quando si ritagliano dei testi per la liturgia… e qui il biblista e il liturgista hanno di che litigare!). Nel racconto dell’Esodo infatti è omessa l’adesione del popolo all’alleanza che segue immediatamente: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19,8). Questa adesione è fondamentale, altrimenti anche la memoria del cammino che Dio ci ha fatto percorrere sin qui (“vi ho sollevato su ali di aquile”, Es 19,4), anche le parole più belle e più grandi di Dio, come quella di essere costituiti popolo di sacerdoti e nazione santa, rimangono lettera morta, non possono vivificare chi le riceve. Non operano magicamente. Perciò anche noi vogliamo col popolo rispondere alla proclamazione delle meraviglie di Dio, al nostro nome nuovo che mai avremmo potuto immaginare o pensare: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!”.
D’altro canto, la missione dei Dodici di cui abbiamo ascoltato presuppone la missione di Gesù, di cui è calco. Il potere conferito agli apostoli, la possibilità di dire le parole inaudite: “Il regno dei cieli è vicino!”, sarebbero inconcepibili se prima Gesù non avesse portato lo stesso annuncio e non avesse operato lui, in prima persona, i miracoli che illustrano la presenza del regno in mezzo al popolo. È quello che nel vangelo di Matteo hanno fatto i due capitoli che l’evangelista colloca tra la fine del discorso della montagna, al c. 7, e il discorso missionario che abbiamo iniziato a leggere. È proprio al centro dei due capitoli che Matteo, riassumendo l’operato di Gesù, incastona la citazione del quarto canto del Servo del Signore: “Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie” (Mt 8,16-17; cf. Is 53,4).
In altre parole: se noi possiamo fare qualcosa, è perché Dio ci precede sempre. Questo lo spiega molto bene e spesso papa Francesco, quando italianizza con un po’ di cacofonia, il verbo spagnolo primerear, per esprimere il precederci della Grazia. Così dice: “Questa fu la scoperta decisiva per san Paolo, per sant’Agostino, e tanti altri santi: Gesù Cristo sempre è primo, ci primerea, ci aspetta, Gesù Cristo ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando. Lui è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera” (Francesco, Discorso al movimento di CL, 7 marzo 2015).
Come Dio ci precede sempre, così sempre da noi chiede una risposta, l’adesione di tutta la vita, senza risparmio. E con questo, Dio moltiplica la nostra gioia: “perché la vostra gioia sia piena”!
Quindi: primato della grazia e risposta dell’uomo, e la certezza e il desiderio di fare nella nostra vita tutto ciò che ha fatto Cristo, per diventare trasparenza del Regno!
Allo stesso tempo e correlativamente i brani che abbiamo ascoltato raccontano in modo splendido l’incontro tra due oggettività, due dati ineliminabili dell’esperienza cristiana. Nel Vangelo si dice della gente che segue Gesù che sono stanchi e sfiniti come pecore senza pastore e perciò Gesù ne ha compassione e manda i suoi alle pecore perdute della casa di Israele: sono stanchi, sfiniti, senza pastore, perduti; e Paolo rincara la dose: eravamo deboli, eravamo peccatori, eravamo nemici. Questo è un polo dell’esperienza: la nostra povertà, la nostra indegnità, il nostro niente che ha una forza oggettiva spaventosa e che se, preso sul serio, ci paralizzerebbe senza scampo.
Eppure – è il secondo polo – siamo costituiti regno di sacerdoti e nazione santa. E san Paolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). È quello che sant’Agostino molto spesso nei suoi trattati chiama l’incontro tra la miseria e la misericordia, tra la povertà dell’uomo e la grandezza di Dio. E se vogliamo fare un passo oltre è anche ciò che fonda la struttura sacramentale della Chiesa.
Questo permettetemi di spiegarlo con una citazione – non breve – dell’allora cardinale Ratzinger al sinodo dei vescovi del 1990. Il cardinale sta illustrando, da par suo, il grande mistero dell’essere inviati come apostoli di Cristo, e in modo speciale la natura del sacerdozio. Ascoltiamolo. Dice:
Questo «nulla», che i discepoli condividono con Gesù, esprime allo stesso tempo la forza e la debolezza del ministero apostolico. Da se stessi, con le sole forze date dalla loro ragione, conoscenza, volontà, essi non possono fare nulla di quanto sono chiamati a fare come apostoli. Come potrebbero dire: «Io ti assolvo dai tuoi peccati»? Come potrebbero dire: «Questo è il mio corpo»? Come potrebbero imporre le mani e dire: «Ricevi lo Spirito Santo»? Nulla di ciò che costituisce l’agire apostolico è frutto di una propria capacità. Ma proprio in questo «nulla» di proprio risiede la loro comunione con Gesù, il quale a sua volta è interamente del Padre, solo per lui e in lui, e non sussisterebbe affatto se non fosse un provenire continuo dal Padre e un riconsegnarsi a lui. Questo «nulla» di proprio li trascina dentro la comunione di missione con Cristo. Questo ministero, nel quale l’uomo per comunicazione divina fa e dà ciò che da sé mai potrebbe fare e dare, viene chiamato dalla tradizione della chiesa «sacramento». […] Colui che riceve un sacramento è mandato per dare ciò che con le sue forze non può dare, perché agisca al posto di un altro e ne sia lo strumento vivo. […] Ciò che è di Dio può essere solo ricevuto dal sacramento. La missione può essere ricevuta solo dal mittente – da Cristo nel suo sacramento, attraverso il quale uno diventa nel mondo voce e mano di Cristo. E certamente proprio questa consegna-di-sé-all’altro, questo uscir-fuori da se stessi, l’essenziale espropriazione e disinteresse di sé, propri a questo ministero, può condurre alla maturazione e realizzazione autenticamente umana. Veniamo così davvero conformati al mistero trinitario, si realizza cioè l’essere a immagine e somiglianza di Dio e prende carne quel modello fondamentale secondo il quale siamo stati creati. Poiché siamo stati creati a immagine della Trinità, vale profondamente, per ognuno, che soltanto chi si perde può ritrovarsi (J. Ratzinger, La natura del sacerdozio, 1° ottobre 1990).
Credo si possa aggiungere molto poco a questo punto. Direi: se nella nostra vita di consacrati, così bella ma anche a volte così esigente, facciamo esperienza di gratuità, dell’amore di Dio che ci precede, di tanto amore fraterno che non meritiamo, di come la nostra debolezza in Dio diventa forza e opera meraviglie e trasforma il mondo, allora veramente cresca in noi un senso profondissimo di gratitudine, radicato nelle profondità del cuore, lì dove incontriamo Cristo e da lui riceviamo vita. Se avviene questo, è inevitabile che crescano la gioia e la libertà, perché giorno per giorno ci stupiamo di come il regno di Dio è in mezzo a noi, anche quando non fa rumore. Se viviamo così ci sorprenderemo nel vedere che accade proprio come ci ha detto il Maestro: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. E qui l’imperativo si trasforma in indicativo: non ‘date’ perché vi è comandato, ma ‘riuscite a dare’ senza posa, perché voi stessi vi siete trasformati in dono. Noi non potevamo, ma tu l’hai reso possibile, Signore nostro Dio.
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