Md. Monica Della Volpe, Capitolo della XVII Domenica del T.O.

Md. Monica Della Volpe, Capitolo della XVII Domenica del T.O.

Capitolo alla Comunità di Valserena del 25 luglio 2010.

 

Il Padre Nostro

  

In questi giorni mi era nato il desiderio di parlare con voi della preghiera. In particolare avevo il desiderio di partire dal Padre Nostro. Ma esitavo, non sentendomi mai molto degna di parlare di questo argomento.[1] Apro dunque il messalino, e il vangelo di oggi ci presenta proprio il Padre Nostro, in un contesto che è tutto sulla preghiera. Parleremo dunque della preghiera, dicendo cose molto semplici, le uniche di cui sono capace.

Perché parlo così poco della preghiera? La preghiera è il primo dei nostri compiti, nella forma dell’opus liturgico e di tutto ciò che lo precede e lo accompagna, lectio, ecc. Proprio per questo può capitarci di darlo per scontato.

Ma, molto di più, proprio per questo ci capita di incontrare in questo campo le difficoltà più grosse e talvolta più impreviste: essendovi immerse, essendo le specialiste della preghiera, paradossalmente è più difficile avere la libertà di affrontare queste difficoltà nel modo giusto.

Siamo venute per la preghiera? Dipende. Le motivazioni per cui si viene in monastero, anche se si riducono tutte ad una, cercare Dio, possono esprimersi con molte sfumature, a seconda dei tempi e delle esperienze precedenti, e grosso modo possonoridursi a due modelli fondamentali:

Il primo, prevalente nell’epoca preconciliare ma presente anche oggi, è quello di chi viene per raggiungere la santità, per arricchire la propria anima di virtù, per accrescere la propria esperienza spirituale – e qui si può certamente anche inserire il desiderio della preghiera.

Il secondo modo, o modello, è piuttosto quello di chi ha incontrato il Signore nell’esperienza ecclesiale, e vuole perciò proseguire la ricerca di lui nella vita di una comunità. Questo secondo gruppo, che corrisponde piuttosto all’esperienza postconciliare, normalmente conosce e ama soprattutto la preghiera liturgica.

Ora, se siamo venute per la ricerca della santità e della perfezione della nostra anima, saremo prima o poi deluse (cioè liberate dalle nostre illusioni: dovremmo essere contente di essere deluse, e ripartire con più lena verso la verità!) dall’impressione di non raggiungerla, anzi, di peggiorare molto. Se siamo legate a una esperienza ecclesiale fatta in precedenza, ci sentiremo prima o poi deluse non ritrovando più il volto di quella esperienza, non sentendoci più sostenute nella stessa maniera, talvolta sentendoci scandalizzate dai problemi della convivenza. Nell’uno e nell’altro caso, potremo arrivare in certi momenti fino a sentirci tradite – se, appunto, restiamo più attaccate alle nostre illusioni che alla verità e realtà della vita e della vita spirituale.

Il modo migliore per riemergere ogni volta da questa situazione è proprio la preghiera, nell’uno e nell’altro caso: è la preghiera infatti il nutrimento che alimenta le aridità della nostra anima, è la preghiera che dà anima alla nostra convivenza e costruisce la Chiesa dal di dentro.

Ma io non riesco più a pregare! Ma io non so più e forse non ho saputo mai pregare! – sono le obiezioni più comuni. Sono storie, ribellioni, tentazioni, nate dalla voglia di scappare all’appello profondo ed esigente, spogliante, di Colui che qui ci ha condotte e qui ci aspettava.

Tutte noi sappiamo pregare: tutte siamo battezzate, e col battesimo ci è stato consegnato il simbolo della fede e ci è stato insegnato il Padre Nostro.

Tutte noi, anche se ci sentiamo venir meno l’anima e l’impulso interiore, abbiamo testa e cuore, corpo e lingua. Alcune di noi hanno in passato, essendo queste cose di moda, perso tempo a fare gli esercizi di respirazione e di rilassamento: futilità. Facciamo il segno della croce, pieghiamo le ginocchia, giungiamo le mani, sciogliamo la lingua, diciamo: Padre. Diciamolo col linguaggio del corpo e col linguaggio del cuore e della mente: capendo quello che diciamo. Usiamo il linguaggio interiore che si è stampato in noi quando la nostra lingua ha imparato a parlare: col cuore e con la mente diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli.

É semplice ma non è banale quello che sto dicendo: va insieme a una coscienza antropologica: la coscienza di sé, corpo, cuore, mente, anima, come di una unità, e una unità fatta da Dio e fatta per ricevere Dio. Perciò non è necessario liberarci dalla materia, non è necessario andare al di là dal mare o al di là dei nostri problemi; o al di là dal corpo o dei nostri limiti, per pregare; non è necessario propiziarci gli spiriti dell’aria: Basta, qui, dove sono, come sono, dire: Padre. Nella fede.

Sappiamolo, crediamolo: stiamo pregando. Se lo sappiamo, se lo crediamo, ben presto lo Spirito Santo verrà e imprimerà nel nostro cuore una coscienza più profonda, più vasta, nuova, di quello che stiamo dicendo: ci rivelerà, ci farà conoscere a poco a poco il Figlio e il Padre.

Ma allora, dov’è l’ostacolo? Probabilmente nel fatto che tutto questo è anche lavoro, lavoro faticoso: non viene da sé, non è prima di tutto piacevole sensazione, richiede un impegno rinnovato e duraturo. Se anche l’illuminazione è beatificante e cambia subito la scena, tuttavia non posso mai possederla, afferrarla, disporne: se ne va quando vuole e torna quando vuole. Ci lascia poveri di cuore: da un lato dobbiamo faticare, dall’altro è un Altro che conduce la nostra vita – e noi non vogliamo questo, noi, che siamo abituati a tenerci in mano la nostra vita, a cercarci da soli il nostro piacere, a voler gestire le nostre sicurezze.

La forza per proseguire nella via della preghiera, per non fermarsi e non tornare indietro, sarà proprio attinta nella fede. E la fede si irrobustisce mediante la lectio: la lectio come studio e approfondimento delle verità della fede è assolutamente indispensabile alla preghiera monastica; senza la lectio, la nostra preghiera o si isterilisce o sbaglia strada. Tanto più oggi, tempo in cui non c’è più la guida forte di osservanze rigide e di una obbedienza rigorosa. E d’altra parte la lectio non deve e non può restare o diventare un cassetto separato dalla preghiera (è il caso più comune) o, peggio, una evasione dalla preghiera.

La preghiera è anzitutto apertura del cuore a Dio nella verità. Solo a un cuore così aperto Dio può parlare, perché solo un cuore così aperto può ascoltare. Uno che dice con verità: Padre, ha già almeno inizialmente il cuore aperto a Dio nella verità.

 

Ma cos’è la verità? La risposta che diamo a questa domanda è decisiva. Se la verità è ridotta alla sincerità riguardo alle mie sensazioni interiori o tutt’al più ai miei sentimenti, che rimangono il centro della realtà per me; se percepisco la proposta della vita come una ricerca confusa di esperienze in cui sensazioni psicosomatiche si mischiano ad emozioni e affetti e l’esperienza è valorizzata per se stessa, senza punti di confronto ideali e morali; in questo contesto la preghiera rischia di diventare un esercizio un po’ fine a se stesso, vissuta per l’emozione o il senso di pienezza che l’esperienza spirituale provoca. Evidentemente questo non sarà molto utile ai fini della vita spirituale. E’ bene sapere che nella preghiera si possono, anche senza esserne coscienti, cercare cose diverse: cercare di barare e strumentalizzare le cose dello spirito; non saper bene quello che si cerca e darlo per scontato, andando senza direzione.

Perciò la preghiera non può essere separata da una indagine intellettuale sulle verità della fede, tesa a formarsi un sistema di pensiero, una visione della vita cristiana.

Su questo punto la situazione odierna è a volte penosa. Vogliamo essere cristiani per un sentimento buono, una ammirazione per il personaggio Gesù, ma contemporaneamente vogliamo continuare a pensare come tutti.

…Se iniziamo questa via, dobbiamo sapere che non si tratta semplicemente di cercare un sollievo psicologico e il conforto di qualche illuminazione; si tratta di essere disponibile a paragonare le idee, valutare il sistema di pensiero dal quale le nostre azioni precedenti si sono sviluppate, essere disponibili, se necessario, a cambiare il proprio modo di pensare. Senza questa disponibilità, è meglio andare altrove.

Tutte noi amiamo e vogliamo la preghiera liturgica: ma questo si basa necessariamente sull’avere una sola fede; cantare con una voce sola, vuol dire essere un cuor solo e un’anima sola; e questo vuol dire avere uno stesso modo di amare la Verità. Che senso avrebbe il cantare con una voce sola, se le fedi fossero divergenti?[2]

Questo fondamento di fede su cui si basa la nostra preghiera, è indicato dalla seconda lettura di oggi, Col. 2, 12-14: fra due letture, la prima e il Vangelo, tutte sulla preghiera, la seconda ci presenta una breve sintesi della nostra fede:

Fratelli, con Cristo siete stati sepolti nel battesimo, in lui siete stati anche risuscitati insieme per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati … perdonandoci tutti i peccati…annullando il debito…inchiodandolo alla croce.

Abbiamo visto brevemente il nesso fra preghiera, lectio e fede. Tutto questo si potrebbe sviluppare. Ma torniamo al Padre Nostro.

Il contesto in cui la preghiera del Padre Nostro ci è presentata oggi dalla liturgia, è quello della domanda e dell’intercessione. La prima lettura, da Genesi 18, l’intercessione di Abramo per Sodoma, incoraggia la domanda di salvezza del giusto rivolta a Dio per i peccatori; d’altra parte, conoscendo il seguito della storia, sappiamo che la domanda basata anche in misura minima sulla giustizia dell’uomo non potrà essere esaudita: in Sodoma non si troveranno 10 giusti ma neanche il giusto Abramo, amico di Dio, l’intercessore, possiede una giustizia così perfetta da poter essere esaudito in favore dei peccatori. Solo Giusto sarà quell’Unico che giustificherà tutti, inchiodando il nostro debito alla propria croce e risorgendo per noi, per la potenza di Dio: è questa la fede che ci salva, è per questa fede che possiamo e dobbiamo chiedere: i tre pani, il pesce e l’uovo, possiamo bussare al cuore di Dio e ottenere che sia aperto dalla lancia e ne sgorghi per noi lo Spirito Santo.

Senza questa fede non crederemo che Dio è Padre e non chiederemo nulla; se ci sentiamo deboli nella fede chiediamo allora aiuto alla fede della Chiesa, domandiamo a qualcuno la carità di pregare con noi. Non solo: per noi, ma per noi e con noi. Entreremo così nella fede della Chiesa, la Madre che può intercedere per noi presso il Padre.

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[1] In realtà siamo tutti, a partire dai trattati e dalle complicazioni dei secoli della modernità, un po’ complessati; e oggi si aggiungono tante confusioni in questa materia.

[2] Conferenza a Norcia

 

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