Conversione dell’interiorità:
dall’esperienza di Giobbe a quella di Paolo, attraverso Gesù
- Gb 7, 14-6-7 : testo Gregorio Magno Moralia in Job
- Mc 1, 29-39 : testo Omelia di Benedetto XVI
In questa domenica del tempo ordinario la liturgia ci propone una straordinaria visione di un’ordinaria giornata lavorativa dell’essere umano; prima nei panni di Giobbe, un giusto, nemmeno appartenente all’antico popolo dell’Alleanza, un sapiente di quel tipo di sapienza che contesta Dio, una sapienza contestatrice; poi nelle vesti di Paolo che mostra la trasformazione di una giornata del lavoro per chi ha ricevuto un nuovo incarico e vuol portare il lieto annuncio; il Vangelo poi descrive ciò che permette la trasformazione dell’uomo da Giobbe a Paolo, la prima giornata lavorativa di Gesù.
La trasformazione del lavoro, cioè dell’opera esterna dell’uomo è però una conseguenza della trasformazione del suo interno: l’interno di Giobbe è pieno di amarezza e lamento, l’interno di Paolo pieno di gioia e convinzione e Gesù è dominato dalla missione che ha ricevuto dal Padre, è determinato dall’appuntamento notturno con il padre che sostiene la fatica della giornata
Seguiamo ciascuno di questi personaggi
Giobbe ci dice l’identità e la missione dell’uomo:
Giobbe nel suo alto lamento descrive, in una specie di inno (Gb 7, 14-6-7; manca il v. 5 che descrive la corruzione del corpo nella malattia) alcune delle più penose condizioni dell’essere umano. Ricordiamo la Genesi, e l’acquisizione della dimensione della fatica del lavoro come conseguenza della rottura dell’Alleanza. Giobbe assapora fino in fondo la condizione di un lavoro che ha come unica ricompensa la fatica e che fa diventare la vita una lunga notte, senza fine, mentre la luce del giorno passa con la rapidità di un soffio, e la consistenza del vivere è tutta persa dietro una fatica senza gioia. La notte è lunga e affannosa, i giorni veloci e brevi: la notte è il tempo della fatica senza ricompensa e senza luce, il giorno, il tempo della luce e della gioia è breve, e non lo si trattiene.
Il lavoro e la solitudine sono due dimensioni che identificano la particolarità dell’essere umano nella creazione: egli è il solo che sta davanti a Dio differenziandosi dagli animali, ed è il solo cui il Creatore affida la gestione della sua creazione, della terra, mediante il lavoro.
Ma per Giobbe questo lavoro è descritto in termini aspri e che suggeriscono l’esperienza di una negatività: come un servizio militare, come un’opera di un mercenario, ancor peggio di uno schiavo.
Notiamo solo che tutte e tre queste parole sono riscattate dalla tradizione della spiritualità cristiana: il servizio militare diventa la capacità di sostenere la tentazione (Gregorio Magno) il lavoro del mercenario è una tappa verso la gratuità della collaborazione con lo Sposo (Bernardo) e il servizio dello schiavo può diventare il servizio liturgico che dà onore a Dio (Regola di san Benedetto).
Identità e missione di Paolo
L’esperienza di Paolo è esattamente speculare, invece del lamento il vanto, invece della schiavitù la libertà, invece della ricerca di ricompensa la gratuità. Ma Paolo non è più solo: ha un popolo cui dedicarsi, delle persone cui donarsi. Certamente anche lui è , in un certo senso schiavo o servo, anche lui è sottoposto alla necessità, anche lui non ha diritto alla ricompensa, ma dentro questa condizione, che è in qualche modo la stessa di Giobbe, egli è libero, e perciò profondamente felice.
Da cos’è data la differenza? Dal fatto che tra Giobbe e Paolo c’è stato Cristo, c’è stata l’Incarnazione. (segue)
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