Il nostro lavoro

Allora sono veramente monaci, quando vivono del lavoro delle loro mani, come i nostri Padri e gli Apostoli (RB)

Dal lavoro ha dunque inizio una crescita di cuore e di mente che tante persone coinvolge e tanti eventi importanti – e in mezzo ai martelli matura l’amore! Nidiate di bambini lo porteranno in un domani cantando: “Un immenso lavoro si è compiuto nel cuore dei nostri padri.
Karol Woityla Cava di Pietra II

E cercando il Signore il suo operaio tra la folla ..dice di nuovo: Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici? (RB Prol)

Il lavoro secondo la Regola di San Benedetto

Non diversamente da quanto è capitato a noi, i nostri padri, cavalieri medievali, e le damigelle loro sorelle e amiche, sono stati scossi e ridestati dai loro sogni e dalle loro illusioni da questo suggestivo richiamo. E forse, se erano peccatori come me, è capitato anche a loro che il Signore pietoso chiudesse loro in un primo momento le orecchie sulla sostanza e sulla fatica di quanto veniva in cambio domandato, per farglielo poi accettare a poco a poco. L’uomo di desiderio è infatti chiamato ed arruolato per divenire OPERAIO:
Cercando il Signore il suo operaio fra la folla cui rivolge questa chiamata, dice … Chi è l’uomo che vuole la vita…?“(RB. Prol. 15)

Più sopra, al v. 3, Benedetto arruolava un soldato, perché militasse sotto Cristo Signore vero Re e si cingesse delle sua armi; più avanti si parla invece (vv. 33-34) di un muratore o carpentiere, che edifica la sua casa sulla roccia che è Cristo. In ogni caso, siamo chiamati ad un LAVORO, che nella sua sostanza consiste nell’evitare il male e fare il bene, nel togliere via dal campo le spine del male e seminarvi la futura messe del bene. Il luogo dove si è indirizzati a compiere questo è la VIA DELLA VITA.
Ecco dunque nei vv. seguenti, 21-22, l’operaio pronto per il suo lavoro: la fede e l’osservanza delle buone opere sono la sua tenuta, la via è quella del Vangelo, la meta: vedere Dio:
«Cingiamo dunque i fianchi col cingolo della fede e dell’osservanza delle opere buone, e sotto la guida del Vangelo incamminiamoci per le sue vie, per meritare di vedere nel suo regno colui che ci ha chiamati. Che se vogliamo abitare nel tabernacolo del suo regno, non è possibile giungervi se non si corre operando il bene.
Sottolineiamo: la visione di Dio non è un’acquisizione, la somma di una conoscenza che abbiamo raggiunto con le nostre ricerche o il risultato di una purezza raggiunta con la nostra ascesi: è piuttosto un luogo in cui siamo introdotti grazie a un cammino, a una corsa, che è il nostro lavoro.»(26-03-00)

Se l’opera a cui nulla va preposto è l’Opus dei, l’opera di Dio, la liturgia, l’opera delle nostre mani non diventa meno Opus Dei dal momento in cui Dio stesso ha comandato all’uomo il lavoro per dominare il mondo.

All’epoca di San Benedetto il lavoro manuale era appannaggio degli schiavi o delle classi povere; la Regola dicendo «Allora sono veramente monaci, quando vivono del lavoro delle loro mani, come i nostri Padri e gli Apostoli» (San Paolo era fabbricante di tende e si gloriava di non dipendere d nessuno) ne afferma tutto il valore come strumento che compie la dignità della vocazione umana, affermando insieme la pari dignità di ogni lavoro, la solidarietà con tutti i lavoratori, la cooperazione al lavoro di Dio…

«L’età antica introdusse tra gli uomini una propria tipica differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro che eseguivano. Il lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l’impiego delle forze fisiche, il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli uomini liberi, e alla sua esecuzione venivano, perciò, destinati gli schiavi. Il cristianesimo, ampliando alcuni aspetti propri già dell’Antico Testamento, ha operato qui una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall’intero contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Colui, il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto (Cf Eb 2, 17; Fil 2, 5-8.) dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere.»
(Giovanni Paolo II, Laborem Exercens 6)

Lavorare è essere simili al Figlio, che come il Padre, sempre opera.
Lavorare è partecipare all’opera del Padre.
Lavorare significa partecipare alla conservazione e cura della creazione del Padre.
Lavorare significa affrettare l’avvento ultimo del regno del Figlio.

Anche ai tempi della riforma cistercense alcuni lavori, in particolare i lavori agricoli, erano appannaggio dei cosiddetti servi della gleba, e i monasteri si reggevano spesso sulle donazioni dei potenti al doppio prezzo della loro indipendenza e della perdita di un valore costitutivo della vita monastica. Per questo i padri di Citeaux rimisero in onore il lavoro manuale, secondo quanto previsto dalla Regola. In quel momento questo recupero significava una affermazione di libertà, e insieme di reale povertà: “Poveri con Cristo povero”.

Questo esprimevano i primi padri dell’ordine nelle prime raccolte giuridiche:

Dall’Esordio di Citeaux:

2. Il sostentamento dei monaci del nostro Ordine deve provenire dal lavoro delle loro mani, dalla coltivazione delle terre, dall’allevamento del bestiame. Per questa ragione ci è consentito il possesso, a nostro uso, di acque, boschi, prati, terre lontane dalle abitazioni degli uomini del mondo, e di animali, eccetto di quelli che risultano piuttosto provocare la curiosità e manifestare la vanità di chi li possiede, che recare un effettivo aiuto: è il caso dei cervi, delle gru e di altri animali di questo tipo. Per queste attività di coltivazione e di pascolo, e per il mantenimento di tutto questo possiamo possedere delle grange, da affidare alla custodia e all’amministrazione dei conversi.
(Dall’Esordio di Citeaux, XV.2 pag 113 Una medesima carità, Qiqajon)

Questo stesso valore ritroviamo espresso a proposito del lavoro monastico nell’enciclica Spe Salvi:

La nobiltà del lavoro, che il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, era emersa già nelle regole monastiche di Agostino e di Benedetto. Bernardo riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale. Per la verità, Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso.
(Benedetto XVI, Spe Salvi, 15)

Infine nel secolo scorso al momento della unificazione delle Congregazioni trappiste i monasteri, rimasti detentori di un tipo di lavoro agricolo e contadino, mentre la società evolveva nelle prime e gravi crisi della civiltà industriale, dovettero affrontare non poche trasformazioni, che imposero cambiamenti non indifferenti, mentre la società perdeva non soltanto un tipo di lavoro, dunque un modo di relazionarsi con la realtà, ma perdeva i fondamenti profondi della fede cristiana, le basi del pensiero di secoli, i riferimenti di certezze ultime e stabilizzanti.

Il lavoro monastico da lavoro prevalentemente agricolo e contadino, dovette adattarsi ai tempi, incrementare alcune risorse provenienti dal lavoro artigianale, migliorare le attrezzature per ogni tipo di opera, adottare anche tipi di lavoro e attrezzature industriali, rimanere al passo con i tempi quel tanto che permettesse di non essere buttati fuori dal mercato, mantenendo però fedeltà alle esigenze dalla Regola che impone di “non lasciarsi mai prendere dall’avarizia” e di “vendere sempre a un prezzo inferiore dei secolari”…, mantenendo soprattutto il carattere di comunità integralmente dedite alla vita contemplativa, dunque non definite da alcuna opera particolare, se non l’Opera di Dio: la Liturgia, Opus Dei.

Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione – il vivere alla maniera degli angeli. Essendo, tuttavia, i monaci uomini con carne e sangue su questa terra, san Benedetto all’imperativo centrale dell’ “ora” ne ha aggiunto un secondo: il “labora”. Secondo il concetto di san Benedetto come anche di san Bernardo, una parte della vita monastica, insieme alla preghiera, è anche il lavoro, la coltivazione della terra in conformità alla volontà del Creatore. Così in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio. Nel ritmo dell’ora et labora la comunità dei consacrati dà testimonianza di quel Dio che in Gesù Cristo ci guarda, e uomo e mondo, guardati da Lui, diventano buoni.
(Visita all’abbazia di Heiligenkreuz, discorso di Sua Santità Benedetto XVI, 9 settembre 2007)

A queste sfide non abbiamo ancora finito di rispondere ma proprio in questo tentativo vediamo delinearsi alcuni elementi di una spiritualità del lavoro che ci avvicina a tutti gli uomini chiamati a guadagnare il pane con i l sudore della fronte.

Rispetto al valore del lavoro in sé:

  • il lavoro esalta la dignità della persona considerata sempre fine e mai mezzo
    ne esalta anche la condizione sociale, in particolare il lavoro monastico è facilmente svolto in comune, o comunque in un ambito di collaborazione è dunque un forte fattore di integrazione personale e comunitaria
  • il lavoro educa alla fatica, vissuta nella consapevolezza del valore del lavoro, e del “premio” del riposo e della festa eterna
  • il lavoro educa a col-laborare per il bene comune, servendolo, piuttosto che a dominare sugli altri asservendoli
  • il lavoro è stato vissuto da Gesù stesso che per 30 anni ha lavorato come operaio nella casa di Nazareth, insieme al padre, in un lavoro semplice e manuale.

Le mani sono il paesaggio del cuore. Le mani spesso si spaccano come burroni tra i monti, in cui rotolano forze indefinite.
Quelle mani che l’uomo apre soltanto quando ormai sono sazie di fatica e vede allora che, grazie a lui solo, gli altri possono camminare tranquilli.
Le mani sono un paesaggio. Quando si spaccano, nelle piaghe sale il dolore e scorre libero, a fiotti. Eppure l’uomo non pensa al dolore.
Non con questo dolore coincide la grandezza: la grandezza dell’uomo, di cui egli stesso ignora l’esatta definizione.
(Karol Woityla Cava di pietra I.)

Il lavoro è profondamente corrispondente alla natura umana:

L’uomo ha un corpo e un’anima ed entrambi devono svolgere il proprio compito ogni giorno. Il corpo deve essere nutrito e coperto, e a questo fine l’uomo deve lavorare con le proprie mani, arare il terreno, spaccare la legna, prendersi cura del bestiame, farsi degli abiti, riscaldare la propria casa e arredarla con semplicità. Ma più importante è il nutrimento dell’anima, mediante lo studio, la lettura, la meditazione e la contemplazione delle cose divine. L’uomo deve allora innalzare il suo spirito a Dio nel ringraziamento, nella preghiera, nella penitenza e nell’adorazione. Nessuno di questi aspetti viene trascurato in monastero. La regola di Benedetto tiene in grande conto la natura umana e si cura di dare all’uomo una vita sana e felice, che Benedetto chiama “scuola del servizio divino” (RB, Prol. 45). Sono certo presenti la fatica e il sacrificio ma ancor più vi è la soddisfazione di un compito svolto bene. E alla fine, al di sopra di tutto, c’è la gioia soprannaturale di chi ha donato tutto il suo tempo e i suoi pensieri a Dio e vive come figlio fedele del suo Padre celeste.
(Thomas Merton, Un vivere alternativo, Qiqajon, Magnano, pag. 28-29.)

La complementarietà, corrispondenza corpo-spirito, esercizi corporali ed esercizi spirituali era ben presente all’uomo medievale che considerava l’uomo come un microcosmo in cui tutto era in qualche modo presente, e di questa corrispondenza facevano la via del cammino monastico, una via che tiene conto dell’uomo in tutte le sue dimensioni

Infatti, noi non perdiamo i godimenti, li passiamo dal corpo all’anima, dai sensi alla coscienza. Pane di crusca e semplice acqua, verdure o legumi senza condimento, non sono affatto cibi piacevoli. Ma nell’amore di Cristo, unito al desiderio delle gioie interiori, è grande soddisfazione poter dare con simile trattamento a uno stomaco ben avvezzato quanto lo possa gratificare e accontentare. Quante migliaia di poveri, con queste pietanze o con qualcuna di esse, soddisfano allegramente la natura? Del resto, sarebbe così facile e così piacevole vivere secondo natura con il condimento dell’amore divino, se la nostra follia ce lo permettesse.
Guarita questa follia, all’istante la natura sorride ai frutti della natura. È la stessa cosa per il lavoro: il contadino ha nervi solidi, muscoli possenti; è il frutto dell’esercizio. Lasciatelo inattivo, si infiacchisce. La volontà crea la pratica; dalla pratica nasce l’esercizio. L’esercizio procura le forze per qualsiasi lavoro.
(Guglielmo di St.Thierry, Lettera d’Oro, Ed Sansoni, 117)

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