Dalla “Lettera a Eustochio” (ep 22) di s. Girolamo
Il combattimento spirituale
“Ascolta figlia mia, volgi a me il tuo sguardo, e il tuo orecchio, dimentica i l tuo popolo e la casa di tuo padre. Allora il Re si invaghirà della tua bellezza.”
Come già si era verificato in Abramo che aveva lasciato la sua terra e i suoi parenti, Dio nel salmo 44 invita l’anima ad abbandonare i Caldei (parola che tradotta significa: quasi demoni) per andare ad abitare nella regione dei vivi, quella che il Profeta sospira ardentemente quando dice: “Spero di vedere i beni del Signore nella terra dei viventi.” Non basta che ti sia allontanata dalla patria, se poi non dimentichi i l tuo popolo e la casa paterna; non è sufficiente neppure aver disprezzato la carne, se non ti unisci agli amplessi dello Sposo. La Scrittura dice: “Non guardarti indietro, non fermarti in nessun luogo dei dintorni; salvati sul monte, per non esser fatta prigioniera.” Posta mano all’aratro non è più il caso di voltarsi indietro e tornare a casa dal campo; né conviene scendere dal tetto a prendere un’altra veste una volta indossata la tunica di Cristo (…) Ho iniziato con questa introduzione Eustochio, Signora, mia (la sposa del mio Signore devo ben chiamarla Signora) perché ti rendessi conto sin dall’inizio della lettera che non intendo intessere le lodi della verginità, che tu conosci a fondo per esperienza, avendo abbracciato questo stato (…) Per la tua consacrazione non devi insuperbirti, ma provar timore. Avanzi carica d’oro: sta attenta ai ladri! Questa vita è uno stadio per noi mortali; qui noi facciamo la gara; altrove riceveremo la corona. Quante volte io pur abitando in questo sconfinato deserto, bruciato da un sole torrido, in questa squallida dimora offerta ai monaci, credevo davvero di essere nel mezzo della vita gaudente di Roma! Me ne stavo seduto tutto solo, con l’anima rigonfia di amarezza. Il mio corpo, sfigurato dal sacco, faceva spavento (…) lacrime e gemiti ogni giorno! Se, nonostante i miei sforzi, il sonno mi assaliva improvviso ammaccavo le ossa tutte slogate steso sulla nuda terra. Non ti parlo del cibo e della bevanda; nel deserto anche i malati usano acqua gelida; un piatto caldo è una golosità! Io dunque, sì, proprio io che mi ero da solo inflitto una così dura prigione per timore dell’inferno, senz’altra compagnia che belve e scorpioni, sovente mi pareva di trovarmi tra fanciulle danzanti. Il volto era pallido per i digiuni, eppure, in un corpo ormai avvizzito, il pensiero ardeva di desiderio (…) Privo di aiuto, mi prostravo ai piedi di Gesù, li irroravo di lacrime, li asciugavo con i capelli, domavo la carne ribelle con settimane di digiuni. Non mi vergogno di confessare queste miserie, semmai piango di non avere più il fervore di una volta. Ricordo: frequentemente i miei gemiti congiungevano il giorno alla notte; non la smettevo di battermi il petto finché, per le minacce del Maestro non era tornata la bonaccia. Anche la cella mi faceva spavento…se scoprivo una valle profonda, una montagna scoscesa o rocce a precipizio, là mi rifugiavo a pregare, (…)
Ma il signore mi è testimone: dopo pianti a non finire, dopo aver tenuto a lungo lo sguardo fisso al cielo, mi pareva talvolta di trovarmi tra le schiere degli angeli; allora, esultante di gioia, cantavo: “Ti correremo dietro, attratti dal profumo dei tuoi aromi.”
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