Da uno scritto del 17 luglio 1994 nella memoria dei primi martiri dell’Africa di P. Christian de Chergé [1]
Martirio
E noi, di quale “martirio” parliamo? A lungo abbiamo inteso questo termine nel senso stretto di una testimonianza di fede esplicita verso Cristo e la dottrina cristiana, fino a versare il sangue. Alcuni “Atti” di martiri ci stupiscono perfino per questa solidità della fede. Viviamo in un’epoca in cui questa non esclude il dubbio, la messa in discussione. A volte, in questi “Atti” c’è un comportamento che ci sconcerta: questi testimoni della fede, questi “martiri”, arrivano ad essere così duri con i loro giudici! Cosa pensare di questa intrepida consapevolezza di essere dalla parte dei “puri”? E di questa certezza, sovente manifestata, che il persecutore andrà diritto all’inferno? E’ questo l’“amare i nemici” e il “pregare per quelli che vi perseguitano” (Mt 5,44)? É strano che si sia dovuto attendere la fine del XX secolo per vedere riconosciuto dalla nostra chiesa il titolo di “martirio” a una testimonianza più di carità estrema che di fede: Massimiliano Kolbe, martire della carità. Eppure la testimonianza di Gesù stesso, il suo “martirio”, è martirio d’amore, dell’amore per l’uomo, per tutti gli uomini, perfino per gli assassini e i carnefici, per quanti agiscono nelle tenebre, pronti a trattarvi come “animali da macello” (Salmo 43), oppure a torturarvi a morte perché avete delle simpatie anche per “gli altri”. “Padre, perdona loro! Non sanno quello che fanno!”. Non c’è più grande amore che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13). Meglio farlo prima, e per tutti, come Gesù. Così chi crederà di mettervi a morte non vi prenderà la vita; già prima, a sua insaputa, questo dono era stato concesso, a lui come agli altri. (…) “non gli hanno rubato la vita, l’aveva già donata!”. Resta il fatto che questo rapinatore ha commesso un omicidio e che, nella violenza deliberata del suo gesto, ha gravemente mancato all’amore che Dio ha inscritto nella sua vocazione di uomo, come nella mia. Non posso augurare questo a nessuno. Gesù non poteva augurarsi il tradimento di Giuda. Non è forse pagare un prezzo troppo alto per quella che viene chiamata volentieri la “gloria del martirio” il fatto di doverla al gesto omicida di un fratello in umanità? Senza contare le generalizzazioni che molti saranno portati a fare… (…) Gesù non riceve la propria gloria da Giuda. Gli viene dal Padre suo ed è dovuta alla testimonianza che gli è assolutamente propria, quella dell’innocenza: “Egli non ha fatto nulla di male” (Lc 23,41). Di fronte a quel “martirio”, il santo e l’assassino sono solo due ladroni che dipendono dallo stesso perdono. A volte basta pochissimo perché i loro ruoli siano intercambiabili! (I fratelli uccisi) hanno avuto “fino all’ultimo” l’umile coraggio dei piccoli gesti quotidiani che assicurano la vittoria della vita su tutte le forze di distruzione. Sono proprio quegli oscuri testimoni di una speranza” di cui canta un inno della liturgia. Su di loro riposa tutto il futuro del mondo. Chi oserebbe credere a questo futuro se loro non fossero là al nostro fianco, gomito a gomito, passo dopo passo, istante dopo istante, pazienti e ostinati, lucidi e ottimisti, realisti e liberi, all’infinito? Secondo il proverbio sufi “non hanno atteso di morire per morire”, non hanno atteso i persecutori per impegnarsi nel martirio reinventando così, nel cuore delle masse, quello che i monaci andavano a cercare nel deserto dopo l’epoca delle persecuzioni: “Il martirio della speranza”. Questo è il rischio che viviamo quotidianamente da queste parti; da tempo ci è imposto. É una scelta che deve poter resistere, anche oggi. (…) Discostandoci da questo rischio, avremmo ancora qualcosa da dire dell’evangelo nel mondo di oggi?
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[1] tratto da uno scritto del 17 luglio 1994 di P. Christian de Chergé, in Più forti dell’odio, a cura della comunità di Bose, pp. 120-124.
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