Dai «Sermoni sul Cantico dei Cantici» di san Bernardo
L ‘anima del martire dimora nelle piaghe di Cristo
Si sente dire nel Cantico dei Cantici: «O mia colomba che stai nelle fenditure della roccia», poiché sta, con tutta devozione, nelle piaghe di Cristo e, in continua meditazione, dimora in esse. Di là deriva la capacità di sopportare il martirio, di là la sua grande fiducia nell’Altissimo. Il martire non ha niente da temere nel levare il volto esangue e livido verso colui dalle cui lividure è stato risanato, e nel riprodurre nel «pallore dell’oro» (Sal 67, 14) la somiglianza gloriosa della morte del Signore. Che cosa potrebbe temere colui al quale perfino il Signore dice: «Mostrami il tuo volto?» (Ct 2,14). A che scopo? A mio parere, il Signore vuole piuttosto mostrare sé stesso. È così: vuole essere visto, non vedere. Che cosa c’è, infatti, che egli non veda? Non c’è bisogno che uno si mostri a lui, a cui non sfugge niente, neanche se si nasconde. Vuole, dunque, essere visto, vuole – comandante pieno di bontà – che il volto e gli occhi del soldato devoto si sollevino verso le sue piaghe, per rafforzare, con questa vista, il suo animo, e renderlo, con il suo esempio più forte nel sopportare. In verità, fino a quando fisserà lo sguardo sulle sue piaghe, il martire non sentirà le proprie. Il martire sta saldo, esultante e trionfante, anche se con tutto il corpo straziato; e mentre la spada gli squarcia i fianchi, egli guarda, non solo con coraggio, ma con ardore vede ribollire il santo sangue dalla sua carne. Dov’è, dunque, allora, l’anima del martire? Certamente al sicuro, certamente sulla roccia, certamente nelle viscere di Gesù, che con le piaghe completamente aperte invita ad entrarvi. Se il martire fosse nelle sue proprie viscere, sicuramente sentirebbe la spada che lo penetra; e non sopporterebbe il dolore soccomberebbe e rinnegherebbe. Ora, invece, abitando sulla roccia, che c’è di strano se ha la durezza della roccia? Nemmeno questo è strano, se, esule dal corpo, non avverte i dolori del corpo. Questo non è effetto d’insensibilità, ma d’amore. I sensi sono sottomessi, non persi. Il dolore non manca, ma è disprezzato. Dalla roccia dunque deriva la fortezza del martire, da essa il martire trae la forza di bere il calice del Signore.
Com’è glorioso questo calice inebriante! Glorioso, dico, e gradito, non meno per il comandante che guarda, che per il soldato che trionfa. «La gioia del Signore è la nostra forza» (Ne 8,10). Perché non dovrebbe gioire alla voce di una confessione piena di coraggio? Infine, la ricerca anche con desiderio dicendo: «Fammi sentire la tua voce» (Ct 2, 14). Né tarderà a tributarle la ricompensa, secondo la sua promessa: subito riconoscerà davanti al Padre suo chi lo avrà riconosciuto davanti agli uomini (Mt 10, 32).
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